domenica 30 ottobre 2011

Cos'è l'EPOC?

Il segreto per il miglioramento della potenza aerobica, qualità indispensabile nel calcio è in questa diapositiva. Con il Siena lavoriamo basando il monitoraggio dell'allenamento sull'EPOC. Di cosa si tratta? ne parlerò nei prossimi giorni.

Per acquistare "Scarponi e Scarpini"

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Estratto dal libro "Scarponi e Scarpini"

Oggi ho il piacere di pubblicare alcune parti estratte dal mio libro "Scarponi e Scarpini" . Così, tanto per conoscerci un pò meglio.



Vi racconto un po’ di me per conoscerci meglio

Come sono diventato Allenatore? Difficile dirlo. La vita ti scorre davanti: studi, famiglia, sport, hobbies, amicizie, viaggi, vacanze, che neanche te ne accorgi.

Dovresti - o forse potresti- trovare un lavoro sicuro, magari come dipendente statale, invece, eccoti lì, ad arrovellarti per sfuggire alla routine quotidiana che ti assedia e ti spinge a diventare un ribelle, e cioè uno che non vuole seguire l’esempio dei suoi sei fratelli, tutti diplomati o laureati. Tutti in ufficio: telefonidistatocomuneinpsinailregionepubblicaistruzione.

In Abruzzo la vita scorre lenta. Chieti è un piccolo centro in cui Leopardi avrebbe avuto materiale in abbondanza per piangersi addosso. Colpa della gente. Colpa di quella mentalità paesana che non lascia crescere e non lascia spazio all’intraprendenza.

L’Abruzzo è come una cerniera tra l’Italia che avanza e l’Italia che rallenta. Come tutte le lampo, a volte scivola bene che è una bellezza, altre volte s’intoppa e non c’è verso che si rimetta a posto.

Per sentirmi vivere, me ne andavo in montagna a far scalate ed in seguito a sciare. A sedici anni. Gli sci ai piedi li avrei messi a venti.

Ero orgoglioso di far parte del corpo nazionale del soccorso alpino. Per me, salvare la gente in pericolo, in montagna, era una missione. Avevo una paura fottuta ogni volta che partivo per un intervento, però non potevo farne a meno. Mai mostrarmi debole, però, e soprattutto a me stesso!

Mia madre piangeva e si disperava. Andavo via in piena notte con la luce delle lampade frontali, un elicottero mi scaricava in mezzo alla neve e il corpo immediatamente cominciava a pulsare e la mente a immaginare qualcosa di grandioso, per chi non si accontenta del quotidiano.

Ho cominciato a sciare grazie ai miei amici Sergio che mi aveva prestato un paio di “Lamborghini” in legno e Silvia che mi aveva dato qualche consiglio. Il giorno del battesimo tirava un vento micidiale e c’era una nebbia meneghina.

La neve era ridotta ad una lastra di ghiaccio.

Mi ero posto un obiettivo? Non potevo rinunciarvi. La prima discesa fu un disastro.

Caddi e mi feci male all’osso sacro, ma continuai imperterrito. Per anni , sentii quelle fitte di dolore ripresentarsi, ogni tanto.

Avevo incrinato il coccige.

Non mi fermai. Divoravo riviste specializzate di sci e andavo in montagna per intere settimane.

Lo sci mi aveva stregato.

Non so dire perché era diventato per me punto di orgoglio, se c’entrava la passione o se la prima concreta realizzazione del giovane uomo, o se invece qualcosa bolliva nella pentola del mio inconscio, che aveva subodorato qualcosa.

Spesso nella mia vita ho compiuto scelte dopo che fugaci pensieri rivolti a immaginare scenari futuri avevano attraversato la mente.

“Sarebbe bello fare quel lavoro lì, vero?” commentai rivolgendomi a mio fratello Guido mentre assistevamo in televisione a un reportage sull’allenamento atletico degli sciatori azzurri.

Avevo appena sedici anni.

Non lo confessavo neppure a me stesso, ma mi allenavo e studiavo per diventare maestro di sci.

Qualcosa - la componente fredda delle mie motivazioni- mi suggeriva che dovevo fare qualcosa che avrebbe potuto offrire una continuità alla mia passione, da riuscire utile anche nel momento in cui la forza e la concentrazione per compiere le arrampicate sarebbero venute meno.

Probabilmente tutto questo sarebbe accaduto non prima di venti anni, ma io già ci pensavo.

Un giorno di liceo, al mio compagno di banco Franco che mi diceva : “Che brutto, quando saremo adulti ed ingrasseremo perché non faremo più attività sportiva”, risposi: “A me non accadrà perché io farò l’Isef e poi l’allenatore” .

In verità, pensavo che non avrei fatto mai l’allenatore, nonostante le dichiarazioni e le premonizioni, perché nel mio immaginario mi rappresentavo questa figura come quella di un uomo anziano, non più scattante e aitante.

Invece, io, mi sentivo forte e invincibile, e il solo pensiero di non potere più fare sport agonistico, mi faceva venire la nausea.

Era il periodo in cui, oltre alla montagna, frequentavo il giro dell’atletica leggera.

A ventiquattro anni sciavo, sì e no, benino, ma credevo di essere un grande campione.

D’altronde, non capita così a sciatori, pescatori, cacciatori?

Incontrai Lucio, un amico con il quale andavo a fare atletica, per il corso principale di Chieti mentre ero alla “sesta vasca”.

Ho il bando di concorso per entrare nella scuola di specializzazione di Roma, riservato agli sport della montagna. Vuoi provare?

La specializzazione alla “Scuola dello sport” di Roma

Arrivai a Roma che avevo il terrore addosso.

Il concorso era per titoli ed esami, e c’erano sette posti in tutta Italia riservati per lo sci alpino. L’unico titolo che possedevo era quello dell’Isef.

Partecipavano al concorso anche quattro preparatori atletici della nazionale di sci.

Dando per scontata la loro ammissione, rimanevano tre posti liberi.

Venne il mio turno e mi sedetti di fronte all’esaminatore: Hubert Fink. Occhi azzurri e un manto bianco di capelli che contrastavano con l’abbronzatura. Se fossi stato un pubblicitario l’avrei scelto per lo spot della Rossignol, altro che Alberto Tomba!

Bleffai a più non posso.

Ero cosciente di raccontare balle mostruose, ma la cosa più incredibile è che ero certo che quell’uomo che avevo davanti se ne rendeva perfettamente conto.

Nonostante questo, eravamo in piena empatia.

Lui capiva che io volevo a tutti i costi quel posto ed era affascinato dalla mia forza di volontà.

Gli devo tanta stima e riconoscenza.

Mi diede fiducia.

Nella mia vita, ho sempre nutrito un sentimento di profonda devota riconoscenza nei confronti di chi mi ha dato fiducia.

So di poter dare molto, se mi impegno. Inoltre, è mia caratteristica non arrendermi mai, se ci sono giusti motivi per non mollare.

Furono i due anni più belli della mia vita.

Roma è una città stupenda, piena di fascino e magia. Avevo una borsa di studio di novecentomila lire al mese, più vitto e alloggio; libri di testo gratuiti; i migliori insegnanti (Dal Monte; Conconi; Vittori; Bellotti; Saibene; ecc.).

Ogni fine mese, facevamo una settimana sulla neve con un istruttore.

Attilio era bravissimo e simpatico, veniva da Madesimo. Si vedeva che ci metteva il cuore per insegnare.

Mi resi conto che il mio livello era davvero scarso, e questa considerazione mi faceva montare una sorta di magone, a metà tra la collera e lo scoramento.

Una volta, il signor Fink, che mi guardava fare serpentina, mi disse: “Dimentica questa discesa”. Me lo disse nel tono tipico delle persone di montagna, secco, senza possibilità di appello. Al Sud siamo abituati ad avere sempre una via di uscita. Il Signor Fink mi aveva ferito profondamente. Ero con le spalle al muro.

Non mi abbattei. Continuai ad applicarmi e a provare all’infinito, per cercare di correggere gli errori. Fino a che, da brutto anatroccolo, mi trasformai in cigno.

Ero pronto per tentare l’esame, per diventare Maestro di sci.

La prima volta, a Piancavallo, fui rimandato e mi diedero un’altra chance al Terminillo. Sciai davvero bene, ero gasato al massimo. Superai le prove di preselezione.

Al Passo dello Stelvio il corso durò tre settimane. Così così nelle esercitazioni pratiche, presi invece i massimi voti nella teoria.

Ero finalmente Maestro di sci.

Avevo imparato a conoscere molto bene i miei colleghi di corso e, ovviamente, i quattro preparatori nazionali, che facevano i leader del gruppo e tiravano le fila di tutto quello che riguardava il tempo libero: feste, cene, discoteca. Loro, prendevano tutto come un gioco.

Per me, invece, era tutto maledettamente serio.

Avviai pertanto un processo di immedesimazione. Feci una di quelle cose che, quando ci penso, mi vengono i brividi. Realizzai che avrei dovuto avvicinarmi di più a quei quattro preparatori, pensare come loro, comportarmi come loro: senza far pesare loro la mia scelta. Cercai anche di ripulirmi dalla cadenza dialettale abruzzese. Stetti al loro gioco. Diceva Amendola: “In guerra per sopravvivere bisogna imparare la lingua del nemico”.

Marco, Stefano, Massimo e Bruno non erano miei nemici ma io dovevo arrivare a toccarli, per trasformare in realtà i sogni. Poiché il mio sogno, ora, era quello di diventare preparatore atletico delle squadre nazionali di sci.

Se da una parte frequentavo la loro compagnia e la loro voglia guascona di dimostrare di essere arrivati, dall’altra studiavo come un matto, ed ero diventato il più bravo del corso.

Un giorno, Massimo, il più “dandy” dei quattro ma anche quello con più credibilità, mi chiese se ero disposto ad accettare il ruolo di preparatore atletico al posto di Marco che per motivi familiari doveva rinunciare.

Non credevo alle mie orecchie, quasi piangevo per la gioia e tremavo, mentre un turbine di immagini mi sconvolgeva la mente. Continuavo a dirmi: “Io... ..Proprio io? io ?

Ricordo che Massimo mi chiese mille volte se ero convinto di intraprendere quel lavoro, poiché le difficoltà erano enormi e c’era il problema che ogni volta avrei dovuto percorrere circa milleduecento chilometri in più (tra andata e ritorno) dei “nordici”, per arrivare a Milano, luogo di ritrovo prima delle trasferte.

La cosa non mi sfiorò minimamente, e accettai senza pensarci due volte. Al Signor Fink, dissi: “Stare a casa sette ore o viaggiare sette ore per me non fa differenza”. Lo dissi con il tono tipico della gente del nord, che non lascia spazio ad alcuna risposta.

Ricordo che quando mi telefonò per darmi la notizia Sepp Messner, a quel tempo direttore tecnico dello sci italiano, ero in vacanza a Francavilla al Mare, in Abruzzo.

Non stavo più nella pelle per la gioia. In un secondo, vidi davanti a me tutta la folgorante carriera che mi attendeva. Successi incredibili, luci della ribalta e guadagni favolosi.

Il signor Messner mi aveva detto di mettermi in contatto con una certa Luisella, per gli accordi del contratto.

Mi chiedevo: “chi sarà Luisella? Un direttore commerciale o una sorta di direttore sportivo come nel calcio? Oppure il presidente in persona?”

“Grande Federazione”, mi dissi, “se come capo hanno una donna. Farò dunque parte di un gruppo di tecnici di una Federazione giovane e all’avanguardia”.

Composi il numero che mi tremavano le mani. Misi giù il telefono un paio di volte, prima di riuscire a vincere l’emozione.

Alla fine mi feci coraggio: “Pronto? Vorrei parlare con la signora Luisella, per favore”.

“Signorina prego”, rispose una voce tagliente come un machete.

“Buongiorno, mi scusi per il disturbo, sono D’Urbano e il Signor Messner mi ha detto…”

“So tutto, e il tuo contratto è di seicentomila lire al mese”.

Ebbi un momento di panico. Forse avevo capito male. La voce mi si strozzava in gola e dovetti chiedere di nuovo la cifra, che mi venne confermata, in maniera stizzita.

Ringraziai e salutai.

Mi sarei messo a piangere. Non potevo crederci. Cosa avrei detto ai miei genitori? Che ero diventato un allenatore degli sciatori che si vedono in televisione e che mi avevano offerto uno stipendio da aiuto cameriere?

Come era nel mio stile, ci pensai su qualche giorno, dopodiché ritelefonai alla Luisella. Anche perché, nel frattempo, mi ero informato e avevo scoperto che la mia referente era “soltanto” la segretaria dell’ufficio sci alpino, mentre il presidente era nientepopodimenoche, il mitico Arrigo Gattai: inarrivabile e supremo.

“Buongiorno, sono D’Urbano e vorrei…”

“Dimmi”, tuonò la Luisella.

“Senta Signorina Luisella”, dissi, pensando che essere premuroso e cordiale avrebbe giocato a mio favore.

“Io so che forse disturbo, ma a proposito del mio contratto, sa, mi sembra che seicentomila lire siano un po’ poche, e vorrei…”

“Senti”, incalzò in maniera cerbera la segretaria, “lo sai che ci sono preparatori atletici nella nostra Federazione, che lavorano da anni e guadagnano poco di più? Se non ti sta bene, non sei costretto ad accettare. Abbiamo fila di allenatori che prenderebbero il tuo posto”. E riattaccò.

Mi sentii tanto Fantozzi.

Faccio parte della squadra nazionale di sci

Arrivai a Cecina in treno e presi servizio. Tutto sommato, gli otto giorni di lavoro con la mia squadra di atleti, andarono abbastanza bene.

Avevo affiancato, per quel breve periodo, Marco, il preparatore atletico uscente.

Tornai a casa con l’Alfasud color granata in dotazione, le cui fiancate erano coperte da mille scritte che ne identificavano la destinazione d’uso: “squadra nazionale di sci”; “Federazione Italiana Sport Invernali”, gli Sponsor “Grana padano”, ecc.

Ero fiero e mi sembrava che tutti mi guardassero.

In effetti la mia sensazione era giusta. Avevo perduto la marmitta, che strisciava per terra e faceva mille scintille.

Mi fermai in albergo, intanto che in officina cambiavano il pezzo. Ero a cinquanta chilometri da Cecina. Hotel e marmitta mi costarono mezzo stipendio.

Riuscii a farmi cambiare la macchina dopo un po’, facendo leva sul fatto che le mie trasferte, più che normali viaggi per raggiungere le località di allenamento, erano vere e proprie epopee.

Partivo ogni volta da Chieti, e il ritrovo con gli atleti era a Milano. Loro, salivano in macchina freschi e pimpanti mentre io ero già distrutto per i seicento chilometri di avvicinamento compiuti. Prima di andare a Stilfserjoch o Schnalstal o Courmayeur o Zermatt, Saas Fee. Dio solo sa come abbia fatto in quegli anni.

Mi diedero una 131 Supermirafiori a gasolio.

La presi in consegna a Colico, ridente località all’ingresso della Valtellina. Era parcheggiata, piena di scritte, di fronte alla stazione ferroviaria.

Partii, contento di avere risolto il problema ma, dalle vibrazioni del volante, mi resi conto che qualcosa non andava.

Scesi ed inorridii. Dai pneumatici spuntavano fuori fili di acciaio o forse di altro materiale, che ne costituivano l’anima.

Cambiai tutti e quattro i pneumatici e la Federazione mi rimborsò la metà della spesa.

Attraversavo tutta l’Italia in lungo e largo, andata e ritorno, per sei volte al mese, e mi capitava di tutto. Dovevo fare i conti con il freddo che gelava il gasolio nel serbatoio, facendo blocchi di paraffina. Perciò, dovevo farlo smontare e pulire spessissimo, mentre, altrettanto spesso, dovevo fermarmi in corsia di emergenza, tentando di scaldare i tubi che portavano il gasolio ai filtri, mediante coperture di carta di alluminio improvvisate e quanto mai rozze.

Il peggio doveva ancora arrivare. I quindici gradi sottozero dei posti dove andavamo ad allenarci o a gareggiare, facevano saltare in continuazione uno dei due filtri del gasolio, che era in vetro. Siccome l’auto era fuori produzione, il pezzo di ricambio non si trovava. Quante volte sono rientrato a casa in treno o in autostop, e poi tornato a riprendere la macchina. Quante volte sono stato ospitato in casa di amici, quante volte ho dovuto dormire in albergo. Facevo una vita da zingaro, e per di più, non avevo una lira in tasca, spendendo ogni risorsa per fare accomodare un’auto che mi lasciava spesso e volentieri a piedi.

Tenevo duro. Non volevo mollare. Sentivo che ce l’avrei fatta. Che le cose, prima o poi, si sarebbero aggiustate e messe per il meglio. Nonostante le difficoltà, mi piaceva sentirmi investito di quel ruolo così importante.

Riuscii perfino a superare con nonchalance l’ennesimo schiaffo inferto al mio orgoglio quando una signora, in autogrill, mi chiese se ero l’autista della Centotrentuno Supermirafiori parcheggiata fuori.

Annuii, timoroso. Quell’auto, aveva un che di inquietante. Era capace di attirare ogni sorta di guai.

“ A cquande le vinne lu furmagge signò ? “ mi chiese con marcato accento abruzzese;

“ Formaggio ? ”:

“ Nen vvinne lu furmagge ? ” :

“ No , veramente io faccio l’allenatore della … ”

“ E ppecché ti’ la scritte de lu furmagge a la machene? ;

“Ah, ho capito, lei dice la scritta dello sponsor sulla macchina”;

“ De chi? Vabbo’ uaglio’ so' capite ca ni' mmi vu’ da’ niènde ”.

Chissà, se a Lippi o Sacchi è mai successo qualcosa del genere…

La squadra che allenavo, era composta da dodici atleti, che io chiamavo, scherzando, “quella sporca dozzina”.

Erano delle teste matte ma, d’altra parte, per calarsi su piste ghiacciate e ripide a 140 chilometri all’ora, qualcosa di diverso, nei cromosomi, dovevano pur averlo.

Un giorno, il più piccolo del gruppo, un vero attaccabrighe, stava litigando con il più grande, un colosso. Assistevano alla scena almeno altri quattro o cinque atleti che, manco a dirlo, si divertivano da matti.

Qualcuno gridò al colosso: “Se non gli dai almeno un pugno sul naso a quel nanerottolo, sei un coniglio”. Detto, fatto. La sventola arrivò con grande violenza, ed il sangue cominciò a uscire a fiotti. Diagnosi: setto nasale rotto e conseguente punizione per i due.

Probabilmente il colosso aveva reagito d’istinto, a quella che era divenuta nella dinamica di gruppo, una sorta di legge non scritta: chi veniva tacciato di essere un coniglio, non era degno di stare nella squadra di discesa libera.

C’era un altro gigante in squadra: un ragazzone alto un metro e ottantacinque per novanta chili ed aveva una forza nelle mani spaventosa.

Al bar del suo paese, qualcuno lo prendeva in giro. Ci scappò una rissa. Intervenne un carabiniere, che, nel trambusto, beccò un pugno sul naso. Il gigante fu denunciato e perdemmo un talento dello sci azzurro.

Quella prima stagione di lavoro si avviava al termine. Ci attendevano le gare europee, che si sarebbero svolte a Jasna, sui monti Tatra, in Cecoslovacchia.

Partimmo con due aerei charter. Uno decollò da Sofia, un Tupolev dell’Aereoflot russa. Uno da Bratislava con a bordo le squadre nazionali femminili. Il pilota di quest’ultimo, quando vide l’aereoporto militare su cui doveva atterrare, fece dietro front.

Noi planammo alla meno peggio con decine e decine di paia di sci, che, caricate in prima classe, premevano contro la cabina di pilotaggio.

L’ultima sera si scatenò il pandemonio nell’albergo che ospitava le squadre di sci provenienti da tutto il mondo.

Era stata organizzata, infatti, dal comitato d’onore di Coppa Europa, una sfilata di moda e, mentre le modelle facevano del loro meglio, ci furono episodi di tifo calcistico nei loro confronti dovuti a qualche bevuta di troppo.

Rimasi scosso da quell’episodio, ma non ebbi la lucidità necessaria per poter giudicare in modo obiettivo. Semplicemente rimossi. Tant’è che oggi penso che forse tutto questo me lo sia immaginato.

La stagione era terminata e c’erano stati grandi cambiamenti in Federazione. Avevano silurato il direttore tecnico, ed era stato nominato, al suo posto, l’ex della “valanga azzurra”, l’altoatesino Helmuth Schmalzl (che in italiano vuol dire burro fuso).

Avevo una gran paura che anche la mia avventura potesse finire improvvisamente così come era cominciata.

Era mattina e poltrivo nel letto. Mi ero appena trasferito a Milano.

Il telefono squillava nella camera disadorna e il suono rimbombava in tutta la casa. Non potei fare a meno di alzarmi. Scattai in piedi carico di adrenalina. Ripensandoci bene, ero forse ancora teso, dopo una stagione di allenamenti e gare, densa di avvenimenti e pesanti trasferte. Lo stress accumulato era stato veramente notevole.

sabato 29 ottobre 2011

I miei due ultimi libri

Queste sono le copertine dei miei due ultimi libri. Nel prossimo Blog ne parlero' in maniera dettagliata. Scarponi e Scarpini è ora nelle librerie.

Web Page Prof. Giorgio D'Urbano

Salve,
Sono Giorgio D'Urbano.
Da oggi sono on-line.